”Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”. (Adriano Olivetti)
Il piede scivola. Il punto d’appoggio cede. La gamba si incastra nella fessura nella roccia torcendosi. Un rumore secco come quello di un ramo maturo che si spezza fende l’aria. È il femore. L’uomo coperto da una pelle di lupo lancia un urlo di dolore e di consapevolezza. Il branco non difende chi non può contribuire alla sua sicurezza o alla sua sussistenza. È la regola della sopravvivenza delle comunità selvagge della preistoria. L’uomo sa che da cacciatore è appena diventato una preda. Il suo destino è segnato, se non fosse che un altro uomo, anch’esso vestito di pelli, gli si avvicina. Afferra delicatamente la gamba con il femore spezzato. La estrae dalla fessura, carica l’uomo infortunato sulla spalla e lo porta nella più vicina grotta dove lo accudisce fino a quando si rimette.

Margaret Mead (1901-1978), americana vissuta nel secolo scorso, un’autorità dell’antropologia, è convinta che l’umanità (n.d.a)[1] sia nata in quel momento. Proprio in quell’istante, quello in cui un uomo decise di prendersi “cura” di un altro uomo, un compagno infortunato. Prendersi cura non è come aiutare. Aiutare significa rendere più agevole, facilitare qualcuno a compiere un’azione. “Prendersi cura” è, invece, un’azione più complessa. “Prendersi cura consiste innanzitutto nell’essere disponibili e comprensivi come e quando richiesto e, in secondo luogo, nell’intervenire ragionevolmente non appena la persona di cui ci si prende cura si trovi in difficoltà[2]”. Il secondo uomo è intervenuto ragionevolmente, ma aveva qualcosa di più profondo che lo spingeva verso il compagno ferito. Adam Smith l’ha chiamata “simpatia”. Oggi la chiameremmo “empatia”. Infatti, “per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dagli altri è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti, tale sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità[3]”. L’azione fa la differenza. E la pietà e la compassione che il secondo uomo ha provato nel vedere il femore rotto ha preso il sopravvento sulle regole del branco. Aveva immaginato la sua gamba nella fessura, con il femore spaccato. Aveva immaginato il dolore, il sangue. Così, condividendo la miseria del compagno non ha potuto far altro che aiutarlo. Ha fatto di più: ha dimostrato che si può salvare un compagno senza compromettere la sopravvivenza del branco.
Prendersi cura viene da una spinta interiore. Per agire bisogna saper ascoltare e rispondere. Prima di rispondere, cioè agire, bisogna capire dove e come intervenire. E per farlo bisogna ascoltare. Se non si ascolta, il valore del prendersi cura diminuisce. Ascoltare è un’arte e va eseguita con meticolosa applicazione. Non è vero che “ascoltare bene è già rispondere[4]”. Per “ascoltare bene” occorre annullarsi di fronte all’interlocutore per consentire a tutte le dimensioni verbali, non verbali e subliminali del messaggio di raggiungere la loro destinazione nella maniera più pura possibile. Solo così si potrà dare la risposta migliore. Se non ci si annulla allora si filtra il messaggio che, inevitabilmente arriva distorto. E la risposta non è adeguata.
“Al centro” è il luogo della persona di cui ci si prende cura. Al centro delle attenzioni e dell’azione delle persone che di loro si prendono cura. È l’umanesimo a celebrare l’umanità. Celebra “la ritrovata dignità dell’uomo, la quale a sua volta ne afferma la libertà di pensare con il proprio cervello” [5] , andando oltre, mettendo l’uomo “al centro dell’universo”. E non poteva essere altrimenti. Dopo 1000 anni di medioevo dove l’uomo si era sottomesso a Dio, il centro dell’universo era il luogo più adatto per affermare la consapevolezza di essere in grado di determinare da sé il proprio destino. Il movimento del XIV secolo trova il suo scopo nel recupero di valori umani tipici della cultura classica: l’ideale equilibrio tra istinto e ragione, l’armonia e la bellezza. Questi trovano la loro massima espressione nella bottega rinascimentale organizzata per liberare le energie e creare quei capolavori che ancora oggi non sono ancora stati eguagliati.

Per gli umanisti l’essere umano è buono, deve esserlo. Deve essere “nobile, buono e sempre pronto a venire in aiuto! È l’unica cosa che lo distingue da tutti gli altri esseri che conosciamo”[6]. Cioè, in sostanza, deve “prendersi cura”. E il suo compito è sviluppare la sua bontà con l’educazione e l’istruzione. “Homo homini lupus”[7] affermava invece Thomas Hobbes per descrivere lo stato di natura in cui gli uomini, soggiogati dall’egoismo, si combattono per sopravvivere. “Homo homini natura amicus” rispondeva da Napoli Antonio Genovesi[8], il padre dell’economia civile. In realtà, come appare ovvio l’uomo non né lupus né amicus ma si muove da un estremo all’altro.
Dalla cura del femore rotto sono passati millenni e lo scenario contemporaneo più simile a quell’episodio è quello di un campo di battaglia. Anche le regole sono cambiate. Prima tra tutte, nessuno viene lasciato indietro, tantomeno se è ferito. Inoltre, il pericolo non è più dato dalla presenza di feroci animali predatori. Il pericolo è rappresentato da altri uomini. E ai soldati ai quali si chiede perché tornino sul campo di battaglia sfidando i proiettili nemici per salvare un compagno ferito, la risposta è sempre la stessa: “perché lui lo avrebbe fatto per me”. L’umanità ha rafforzato i legami tra le persone ma ha messo anche un uomo contro l’altro.
Ma torniamo al centro, là dove si mettono le persone, un esercizio diventato semplice, fin banale. Oggi il luogo dove risulta più facile mettere le persone al centro è l’azienda. Non c’è azienda che non lo dica, ed è lodevole. Riuscire a farlo è nobile. Benigno Crespi[9] era riuscito a farlo e la sua opera gli è sopravvissuta fino ai giorni nostri. “Il Villaggio Crespi” (1877), costruito per prendersi cura completamente dei suoi operai oggi è Crespi d’Adda, è un comune italiano, patrimonio dell’umanità.
6385 €. È quello che hanno trovato in più in busta paga i 783 dipendenti di Brunello Cuccinelli. Era il 2012 e il “re del cachemire” decise di condividere i 5 milioni di euro di utili con i dipendenti per premiarli per i risultati. Anche questo è un modo per “prendersi cura” riconoscendo il loro contributo imprescindibile e la loro centralità.
Il centro dell’azienda, tanto ambito, non garantisce di essere ascoltati o che ci sia qualcuno che si curi dei lavoratori. Il centro può essere anche un luogo pericolosissimo dove l’umanità non riesce a forzare i recinti e agire. Nel centro dell’azienda, infatti, ogni anno si compie una strage. Nel 2021 in Italia 1407 persone sono morte lavorando. L’anno prima nel mondo i morti sul lavoro sono stati oltre 2.800.000.
Le persone vengono messe al centro dell’impresa senza essere riconosciute come tali. Sì perché licenziare con un messaggio di posta elettronica 422 persone, come è accaduto a Campi di Bisenzio alla GKN, è una pratica che nulla a che fare con le persone e il loro rispetto. Peggiore è stato il comportamento dell’americana Better.com. La società americana, che ha un nome il cui significato (migliore), visto il comportamento è grottesco, ha convocato 900 persone in una riunione via zoom annunciando che erano tutte licenziate a effetto immediato compreso il team “diversità, equità e inclusione”.
A Seattle Dan Price, fondatore e CEO di Gravity Payments, ha alzato la testa della scrivania quando ha percepito un velo di infelicità negli occhi delle persone che ogni giorno lavoravano con impegno e dedizione. Non riusciva a comprendere perché fossero infelici, in fondo i loro stipendi erano superiori alla media del settore. Di poco, ma superiori. Parlò con i dipendenti, si guardò in giro. Si rese conto che uno stipendio non bastava in una città costosa come Seattle. Varò un provvedimento: nessuno stipendio poteva essere inferiore a 70.000 $. E per finanziare l’operazione ridusse il suo stipendio da 1.100.000 $ a 70.000.

L’impatto della decisione fu devastante. Prima del provvedimento nascevano in media due bambini all’anno. Dopo il provvedimento la media salì a otto. Il 20% dei dipendenti acquistarono la loro casa. Il 70% dei dipendenti estinse tutti i propri debiti. E la Gravity Payments? I clienti raddoppiarono e il turn over dei dipendenti passo dal 40% al 15%. Il dirigente più pagato guadagna oggi quattro volte più del dipendente meno pagato.
Le persone al centro della fabbrica vengono tuttavia misurate e giudicate con la logica della produzione dell’impianto. Le metriche sono quelle che misurano gli input e gli output. E i licenziamenti sono gestiti come le dismissioni degli impianti. Invece, proviamo a mettere l’umanità al centro. Mettiamo al centro il “prendersi cura”. Prendersi cura delle persone, dei prodotti, dei clienti, dei fornitori. Mettiamo al centro un modo di essere: l’umanità che entra nella cultura dell’azienda e nei suoi processi.

In uno scenario apparentemente sfavorevole gli imprenditori umani ci sono e ci sono stati. Primo tra tutti Adriano Olivetti che è stato il primo a coniugare umanità e dimensione dell’impresa. La chiave è in ciò che Adriano ha riconosciuto nel padre Camillo. Racconta Adriano: “erano i tempi di mio padre e di Domenico Burzio, un binomio per me inscindibile. Io allora ero molto giovane e non avevo capito di loro che una parte. Vi era una realtà nel loro esempio, nel loro modo di affrontare i problemi della fabbrica, che sfuggiva a un esame razionale, a un esame unitario, a un esame che volesse confrontare le cose col metro dei raffronti, che volesse paragonare le cose soltanto ai risultati. Questo qualcosa, l’ho detto, era invisibile ed era la loro grandissima umanità, per cui nella loro superiorità, quando discutevano o esaminavano il regime di vita o il regime di fabbrica, ciascun lavoratore era pari a loro, era un uomo di fronte a un uomo”[10].
Metti al centro della fabbrica una persona e incontrerai un lavoratore. Metti al centro della fabbrica l’umanità e incontrerai un uomo.
Ringrazio Vittorio Pentimalli con il quale mi sono confrontato a lungo mentre pensavo a questo articolo e mentre lo scrivevo
[1] Margaret Mead, rispondendo alla domanda di uno studente dice in realtà che è nata la civiltà.
[2] John Bowlby (1907-1990) psicologo inglese
[3] “Teoria dei sentimenti morali”, Adam Smith (1723-1790)
[4] “Ascoltare bene è già rispondere”, Pierre de Marivaux (1688-1763), drammaturgo francese.
[5] Alberto Savinio (1891-1952), scrittore, pittore, compositore
[6] Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), scrittore, pittore, drammaturgo, poeta, umanista, teologo e filosofo
[7] Thomas Hobbes (1588-1679), filosofo
[8] Antonio Genovesi (1713-1769), scrittore, economista, sacerdote, filosofo
[9] Benigno Crespi (1833-1920) imprenditore tessile
[10] Adriano Olivetti – “Le fabbriche del bene”
Caro Riccardo, mi chiedo e Ti chiedo chi sia la persona con il quale Ti sei confrontato per scrivere questo articolo: mi piacerebbe sapere che tipo di imput ti ha dato, ed in considerazione di quale ruolo all’interno della Società (lavoro, famiglia).
Molto umilmente, Ti dico la mia: concordo pienamente con la Tua visione e, al bando l’umiltà di poc’anzi, Ti confermo che é anche la mia pratica (cura=ascolto=annullamento di ogni personale istanza e/o filtro=gerarchia delle priorità=al primo posto chi ha bisogno di noi/la sua dimensione emotiva/le sue esigenze concrete).
Il mio agire é nei confronti di un Uomo, mio padre, che ha visto mutare improvvisamente la sua vita, spazzata via dalla malattia e dalla morte di sua moglie. Una vita di cui mi sono fatta carico: prima per fornirgli quel sostegno che fosse anche conforto e risorsa, per sopravvivere. Poi, un sostegno che lo aiutasse a riorganizzare la propria vita, a darle un nuovo senso e nuova linfa, compatibilmente con l’età (80 anni ben portati) e con i suoi interessi/piaceri di cui può /poteva ancora fruire (casa, cane, piccolo borgo, esercizio di autonomia, natura, armonia del Bello, a cui é molto sensibile). Questo iter é proseguito anche nel sopraggiungere della malattia e del decadimento fisico che ne é conseguito, in ragione dell’età e con tutte le complicazione che ne derivano e che l’introduzione di una persona in casa in grado di fornire un’assistenza continuativa sana fino ad un certo punto.
Quanto sopra, nei confronti di un Uomo comunque molto solido, intellettualmente ed emotivamente, capace di stare da solo – se non per l’incapacità di cuocersi un uovo – già dedito ad una dimensione riflessiva “in solitaria”, ma la cui vita si nutriva della presenza, del supporto e della condivisione con la moglie, venuta a mancare.
Una condizione nei confronti della quali io mi sono messa in posizione “di ascolto” dunque, per sentire davvero le sue esigenze.
Ma: è stata, ed é, una battaglia continua. Una lotta impari, per la mia sopravvivenza. Perchè?
Per la solitudine estrema a cui porta una Visione di questo tipo, un ascolto dell’altro di questa natura. e quel FARE che necessariamente consegue. Ascolto, Visione, Fare che non trovano condivisione, nemmeno in seno alla famiglia, dove peraltro – nella mia é così – militano persone apparentemente generose e dedite all’altro (ma secondo quali logiche e quali schemi?).
Il vizio é all’origine, perché ciò che manca, per mia esperienza, non é solo la condivisione del fare, – che può venir meno per indole caratteriale o impossibilità oggettiva – ma ancor prima quella del percepire, pensare, ascoltare…Ciò che manca, quindi, é un’attitudine, un dialogo, un substrato culturale comune, vero artefice di quel “comune sentire” che se non muove ad una azione effettiva, quantomeno é fonte di partecipe solidarietà (quella che fa sentire meno soli).
E poi manca il coraggio: quello di uscire dalla propria comfort zone, dalle proprie abitudini, dal proprio consolidato. La mia esperienza mi porta a considerare che lo standing caratteriale, quello in cui etica, valori ed intelletto coltivato giocano un ruolo fondamentale in positivo, é davvero di pochi. Troppo pochi. Ed il resto viene di conseguenza.
Ma se in seno alla famiglia, prima cerchia sociale di riferimento, le dinamiche sono queste come é possibile ipotizzare dinamiche/azioni (?!!) diverse in seno alle Aziende?
Ci vogliono/vorrebbero innanzitutto le persone giuste al posto giusto (perché gli strumenti ci sono, anche sotto il profilo giuslavoristico a mio personale giudizio, fin dalla fase della contrattazione del rapporto di lavoro).
In assenza, l’unica salvezza, per il futuro, é avviare una vera rivoluzione culturale che metta al centro l’Uomo, nella sua dimensione più vera e profonda. Partendo dalla antropologia culturale, dalla sociologia e dalla filosofia, a cui il tuo scritto, non a caso, rimanda.
In definitiva, il Mondo in cui viviamo, é l’esito della famiglia, ma soprattutto della Scuola in cui cresciamo e ci educhiamo. E se non è possibile rifondare la Scuola tradizionalmente intesa – quantomeno perché non ci compete – bisogna forse, comunque, trovare la via per FARE SCUOLA, dove serve. Partendo dalle Imprese?
Sarebbe bellissimo pensare ad una via “culturale” per effetto della quale la conoscenza parte/si trasmette in alto – nel luogo di lavoro e di esperienza – per discendere alla famiglia, dove cultura e valori vengono vissuti e trasmessi – per poi passare alla Scuola – come luogo almeno fertile di scambio e dibattito – per poi tornare a salire, lungo la via dell’esperienza, esistenziale e lavorativa.
Sarebbe. Si può fare?
Bests.
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Buongiorno Valentina!
Per risponderti dovresti vedere un nuovo articolo, non che sia un fastidio… Anzi.
Appena avrò il tempo sufficiente per darti una risposta degna del tuo intervento mi attivo
Riccardo
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